Joan Mitchell che esortava essere donne sopra e fuori le righe Selvagge e protagoniste visto che “ci sono molte cose oggi che alle donne non è dato essere” diceva.

Le sue pennellate tempestive, a tratti calligrafiche e sfumate erano anche spessi strati di colore che creavano una sorta di superficie materica tridimensionale sulla tela.


from Alessandro Costa
19 Feb 2023

“Musica, poesie, paesaggio, cani mi fanno venire voglia di dipingere… E dipingere è ciò che mi consente di sopravvivere”Joan Mitchell (Chicago, 1925 ‒ Neuilly-sur-Seine, 1992)

Paolo Manazza in un suo articolo la chiamata "La Signora dei Colori" nel lontano 2009, questa artista poco conosciuta in Italia, sia sul versante critico che su quello del mercato,  può essere considerata un ponte tra la pittura americana e quella europea della seconda metà del '900. In collaborazione a Lee Krasner  (moglie di Jackson Pollock), Grace Hartigan, Helen Frakenthaler (sposata in secondo nozze con Robert Motherwell) ed Elaine de Kooning (moglie di Willem de Kooning) fu tra le pochissime donne protagoniste della grande stagione newyorchese dell'espressionismo astratto. Nel 1949 aveva sposato a Parigi Barney Rosset, editore già proprietario della Grove Press  celebre per aver pubblicato lo scandaloso "Tropico del Cancro" di Henry Miller. Dopo aver divorziato a New York nel'52 la Mitchell, conosce il pittore canadese J.P.Riopelle e decide di trasferirsi a Parigi  con lui nel 1955. 

La lunga stagione europea di contaminazione tra una gestualità astratto-informale e la rivisitazione, viene compiuta da Joan anche con delle esperienze coloristiche che prendono spunto da artisti come Vincent Van Gogh e Claude Monet, da lei molto amati. Nonostante la sua produzione artistica sia fondamentale per la crescita della pittura europea le opere della Mitchell sono più o meno sconosciute al grande pubblico e quasi del tutto assenti dal mercato italiano. 

Non così ovviamente per Parigi che nel maggio del 2007, da Christie’s, ha archiviato il suo attuale record mondiale. “Sans titre”, un magistrale olio su tela di quasi due metri per due, dipinto nel 1971, era stimato 1,2-1,5 milioni di euro.

Ma nella battuta finale di aggiudicazione si è fermato, compresi i diritti, a 5.184.000 euro. Nel novembre del 2007, a New York ancora da Christie’s, un altro olio questa volta del 1960 è stato venduto per 5.081.000 $. Il 2008 è stata invece la volta di Sotheby’s, che ha venduto “La Grande Vallée XI”, del 1984 -stimata 1-1,5 milioni di pound- a 2.596.500 sterline. Mentre nel maggio del 2008, “La ligne de la rupture” del 1970/71, nella sala parigina di Sotheby’s stimato 2,2,-3,2 milioni di euro ha sfiorato il record fermandosi a 3.840.250 euro. Complessivamente negli ultimi quindici anni sono passati in asta 455 opere della Mitchell. Con una crescita esponenziale del suo valore medio. Secondo “ArtPrice”100 euro investiti nel 1998 su un’opera di quest’artista valgono in media, nel dicembre 2008, ben 780 euro. Nel 2007 sono state vendute suoi quadri per un controvalore di 20,1 milioni di euro, pari al +74% rispetto al 2006. Si ricorda lo strepitoso  mostra di Reggio Emilia, un avvenimento storico e di tendenza. L’ultima volta che nel nostro Paese furono esposte opere di questa straordinaria interprete del colore risale al 1960 quando Franco Russoli presentò una sua personale nella mitica Galleria dell’Ariete a Milano. E nel 1961 perchè risultò vincitrice del “Premio Lissone”. Da allora per quasi cinquant’anni galleristi, mercanti, collezionisti, critici e l’intero mondo dell’arte italiano si scordò di lei. Un vero peccato.

Nacque il 12 febbraio 1925 a Chicago, figlia di una poetessa e scrittrice e montatrice, che ispirò l'interesse della figlia per la poesia, e di un dottore di successo, dal quale ricevette la passione per l'arte. Joan Mitchell ha conseguito il Bachelor of Fine Arts e il Master of Fine Arte alla School of the Art Institute di Chicago. Trasferitasi a New York alla fine degli anni quaranta, si avvicinò allo stile di Willem de Kooning, Jackson Pollock e Hans Hofmann, importanti esponenti dell'espressionismo astratto.

Nel 1951 fu una delle poche donne invitate ad unirsi al The Club, il punto di ritrovo della East Eighth Street dove gli espressionisti astratti si incontrarono per discussioni settimanali. Nel 1951 Joan Mitchell entrò a far parte dell'innovativo "Ninth Street Show", diretto dal collezionista d'arte Leo Castelli presso il Circolo degli artisti del Greenwich Village.

Nei decenni successivi, l'artista ha soggiornato sia a Parigi sia a New York, diventando famosa per il suo stile caratterizzato dai ritmi compositivi frenetici, dalle forme a blocchi. I suoi dipinti grandi e le sue ampie pennellate gestuali andavano a determinare delle colorazioni liriche ed audaci, ispirandosi al paesaggio, alla natura e alla poesia, per comunicare emozioni e sentimenti senza creare un'immagine riconoscibile. La natura è l'elemento importante  nelle sue opere con gli strati luminosi di colore che ben si evidenziano come nell' opera "Sunflower", soprattutto per il bilanciamento degli elementi compositivi strutturati da uno stato d'animo di improvvisazione selvaggio evidente.

«I miei dipinti sono intitolati dopo che sono finiti. Dipingo dai paesaggi ricordati che porto con me - e ne ho ricordato i sentimenti, che ovviamente si trasformano.» (Joan Mitchell) 

Joan Mitchell ha trasformato la pittura gestuale dell'Espressionismo Astratto in un vocabolario nuovo, in cui le lezioni di Matisse e Van Gogh l'hanno portata ad una padronanza del colore inseparabile dal movimento di luce e pittura. La sua capacità di riflettere il flusso della sua coscienza in quello della natura e nella pittura, è quasi impareggiabile.»
(Klaus Kertess)

 Ma una citazione dal libro sulla storia di Leo Castelli vorrei condividerla con voi:

"20 luglio 1950, 39 East 8th Street: il Club. Gli artisti astrattI ed espressionisti cercano un'identità, facendo discussioni infinite, a partire dai modelli ereditati dalla vecchia Europa. Nell'autunno del 1949, per rompere l'isolamento e imporsi in una società per niente affabile, hanno fondato il Club. Ileana e Leo Castelli, insieme al gallerista Charles Egan, sono gli unici non-artisti a partecipare a questa iniziativa empirica, in qualità di membri fondatori. Molti gli artisti che presto saranno molto famosi: Franz Kline, Willem de Kooning, Ad Reinhardt, Jack Tworkov, Robert Rauschenberg. Su questo Clement Greenberg scriveva: "Downtown, sud di 34th Street, si decide il destino dell'arte americana; è nelle mani di ragazzi: in pochissimi hanno più di quarant'anni, vivono in appartamenti senza acqua calda, fanno la fame. Fanno pittura astratta, raramente espongono su 57th Street, nessuno li conosce tranne un piccolo gruppo di fanatici, di marginali ossessionati dall'arte, isolati qui negli Stati Uniti, come se vivessero nell'Europa del Paleolitico".

Con l'aiuto di diversi amici critici, giornalisti, filosofi e musicisti, gli artisti che stanno in downtown produrranno un'opera di gruppo inedita negli Stati Uniti, che non è esagerato definire rivoluzionaria.  La disperazione, a quei tempi, era il pane quotidiano, perchè gli artisti vivevano davvero isolati, come spiegava Ileana Castelli, non avendo pubblico, facevano fatica a sopravvivere, eppure si ostinavano a continuare, ma avevano l'impressione di lavorare solo per se stessi. Nel ricordo del gruppo il primo che arrivava doveva spazzare, vuotare i portacenere, fare le pulizie, insomma. Siccome arrivavo spesso per prima, mi toccava spazzare prima che arrivassero gli altri. "Tutti lavoravano" aggiunge il pittore Estaban Vicente"tutti contribuivano, mi ricordo che de Kooning risciaquava e asciugava un mucchio di bicchieri".

Il club doveva essere con delle regole inflessibili e la divisione dei compiti doveva essere rigorosa, mentre il gruppo elaborava la propria identità:"Abbiamo deciso che sarebbe stato un club sociale e non un club professionale come spiegava Lud Sander "niente quadri appesi alle pareti".

Come diceva Ileana Castelli gli esterni erano molto mal visti ed entravano con difficoltà, serviva un invito da parte di un membro fondatore che insisteva. L'esperienza del Club è durata sei anni ed è stata un grandioso successo, perchè è nata nell'ambito della lotta condotta dagli artisti all'interno di una realta sociale profondamente ostile all'arte. Gli artisti americani negli anni '50, più o meno consapevolmente, si fanno carico di un conflitto che li perseguita fin dall'800, ovvero il conflitto per l'affermazione della propria identità, in una società gretta e puritana, ossesionata dal denaro e dal potere, che da diverso tempo considera la figura del pittore o lo scultore come inutili  e superflui, cioè come cittadini declassati. Ileana Castelli ricorda che era un'idea geniale pretendere attenzione più per gli artisti e per il loro eroismo che per loro opere. La sua figura è rilevante anche nei confronti di Leo Castelli, considerata una intellettuale, molto vicina agli artisti e ai loro problemi, capace di intuire e capire il significato della loro lotta"Annie Cohen-Solal LEO & C. STORIA DI LEO CASTELLI" "La storia del club ha un senso solo se si rammenta il suo specifico contrasto geografico: il quadrilatero formato a sud  da 8th treet, a nord da 9th Street, a est da Broadway, a ovest da Universiy Place. E' un perimetro in cui è racchiuso un quartiere sordido della New York degli anni '50, 'East Village. I membri del Club sborsano di tasca loro (cinquecento dollari per avere le chiavi) l'affitto dell'attico del numero 39 East 8th Street dove, tre sere la settimana, per sei anni consecutivi, come se facessero lunghe sedute di psicanalisi di gruppo, costruiscono a parole e con altri (critici, galleristi, conservatori di musei, musicisti, filosofi) quella che sarà la loro identità collettiva. Nella primavera del 1951, emerge l'idea di organizzare una mostra collettiva. Il CLUB è anche un teatro di scontri, in cui emergono i conflitti latenti caratteristici dell'ambiente  e questo dava vita alle varie tensioni dei clan. .

Ma torniamo alla nostra "Signora dei colori":

“Ci sono molte cose oggi che alle donne non è dato essere”, spiega Joan Mitchell (Chicago, 1925 – Vétheuil, 1992)" , in una famosa video intervista, in cui il suo volto è in primo piano e lo sguardo vaga da un punto all'altro della telecamera verso la sua interlocutrice.

Racconta un anedotto sul suo cane e poi va avanti a descrivere la sua vita e i suoi dipinti ma ad un certo punto pone una domanda: Cos’è che non è dato essere alle donne? “Savage”, “selvagge”, dice. Donne sopra e fuori le righe.

La sua pittura non è fatta per convivere con la scena urbana di N.Y. Joan stessa parla delle sue tele come di poesie, che mettono in versi i pensieri dell'artista sulla natura, il paesaggio e il tempo.

Negli Anni Settanta, infatti, si trasferisce da New York a Vétheuil, in Francia, dove gli ampi spazi della proprietà in cui vive le concedono di lavorare su tele multiple. Il trittico Closed Territory (1973), ad esempio, è la trasposizione di un paesaggio in ampi rettangoli di colore blu e arancione. Altrove, come in Sunflowers (1990/91), il riferimento alla natura è evidente già nel titolo.
Il paragone tra pittura e poesia non è solo una figura retorica per descrivere la sua opera. Joan Mitchell avrebbe voluto scrivere, prima ancora che diventare pittrice. Il rapporto con la scrittura e la poesia definisce la sua carriera e si esprime in progetti “a quattro mani” come la raccolta di poesie di Nathan Kernan.(Margherita Foresti)

Joan Mitchell muore il 30 ottobre 1992 a Parigi, all'età di sessantasette anni.[1]

Le sue opere sono presenti nelle collezioni del Centro Georges Pompidou di Parigi, del Museum of Modern Art di New York e della Tate Gallery di Londra, tra le altre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Aveva parlato in una occasione della propria pittura, come scelta esistenziale che compie appena dodicenne. La sua figura è ricostruita nella retrospettiva che le dedica il Museum of Modern Art di San Francisco.

Il principio che Monet ha finalmente trovato è più ampio. Non risiedeva nella natura, come pensava, ma nell’essenza dell’arte, nella sua facoltà di astrazione. CLEMENT GREEBERG  Esaltazione del colore che si dispiega su tutta la tela, creando una sensazione di vibrazione e di gioia. I luoghi che non sono più reali ma illusioni, attraversano il filtro della memoria, dei sentimenti diventando visioni mentali e non più fisici.