Le Sirene Silenziose

Il loro canto conduce chi lo ascolta alla conoscenza assoluta


from Alessandro Costa
01 Jun 2022
Herbert James Draper Ulisse e le Sirene 1909

Prima di approfondire dovremmo chiederci come e perché le Sirene cantavano, quando cantavano. L’Odissea fa menzione del canto delle Sirene che viene definito "phthongos", che significa un suono generato da un’unica emissione di voce, da essere umani, ma anche da essere mostruosi quali i Ciclopi, suono inarticolato, non modulato, penetrante e insistente.In una fase successiva il rumore si fa "aoidé", vero e proprio canto. Un passaggio dell’Odissea (Od. XII 43 e 183)  ne spiega molto bene il mutamento non appena la nave viene a trovarsi nella zona di voce delle maliarde, difatti il phtongos serve a richiamare da lontano, l’aoidé a comunicare da vicino.

Inizialmente di un tono di vocalità quasi inesistente, suono quasi impercettibile che non riesce ad essere inteso e capito, ma che lo rende nella sua astratta sonorità semantica una potente fonte di richiamo per i naviganti, che ne sono attratti, quasi ammaliati.

L’aoidé, aggettivo che Omero tramuta in ligyra’, non è privo di ambiguità, infatti era il canto melodioso delle Muse ma anche il fastidioso sibilare del vento, mentre l’altro aggettivo che Omero denomina il Canto delle Sirene, thespésios, che ha in sé l’idea del divino, lo troviamo anche quando appare Teti durante i funerali di Achille creando un fragore che si effonde sul mare in modo terrificante.

Il canto imperfetto, (Maurice Blanchott) che lascia intendere a quale direzione la vera natura e felicità ci apre, guida il navigante verso quello spazio e dimensione che paradossalmente poteva coincidere con la fine, ma che potrebbe essere una vera iniziazione. Inizio e fine, la propria vita si trasforma in un canto epico, epos, in un viaggio dove non si può ritornare indietro all’esistenza di tutti i giorni, ovvero essere cantati, con il conseguente passaggio irreversibile ad un’altra dimensione.

Ulisse non fermandosi in realtà non potè udire il suo canto funebre dopo la sua morte, se lo avesse fatto avrebbe dovuto pagare questa gratificazione con la vita. Si è in sostanza sottratto al canto, per dar vita alla narrazione, nulla di cui andar fiero, visto che ha voluto vedere lo spettacolo delle sirene, senza il rischio e soprattutto senza accettarne le conseguenze, con vile, mediocre e pacifico godimento, non meritando di essere l’eroe dell’Iliade, come si conviene ad un greco della decadenza.

Ne Il Silenzio delle Sirene, Kafka punta a smaschere la fragilità e l’armonia del protagonista spostando l’accento dell’azione sulla sua gestualità sprovveduta, si riempie gli orecchi di cera e si fa incatenare all’albero maestro trasformandosi in un personaggio puerile.                 Ne viene meno la proverbiale arguzia ma sarà proprio questa nuova ignoranza a rivelarsi una salvezza.

 La forza del canto delle Sirene viene sostituata da un'arma ancor più terribile, il loro Silenzio, strumento subdolo e potente con cui la divinità può sottomettere l’uomo, con l’illusione inebriante di esserne l’artefice,  ”al sentimento di averle vinte con la propria forza, e all’orgoglio che ne discende e che tutto travolge, nulla di terreno può resistere”. Ulisse è pur sempre un eroe per eccellenza, smarrita la strada, egli è preda dei mostri ripugnanti che sono stati partoriti dalla sua solitudine. Conosce ancora il piacere della poesia, con ancora la volontà di sfidare il silenzio delle sirene, la più grande tentazione, egli passa oltre, ne abbandona il richiamo e lo muta in commedia. 

Anche per Bertold Brecht, nel “Dubbi sul mito”, del 1935, Ulisse non ne esce bene, “sarei propenso ad immaginare che quelle gole che i rematori vedevano gonfie allo spasimo urlassero insulti, a tutta forza, contro quel maledetto provinciale incapace di osare e che il nostro eroe eseguisse le sue contorsioni, semplicemente anche perché lui, alla buon’ora, provava vergogna”.

In sostanza le sirene di Brecht non tacciono ma si rifiutano di sprecare i loro canti per chi è così meschino da non voler rischiare di farsene coinvolgere, per il tipico uomo borghese che prova il brivido della trasgressione per poi tornarsene tranquillo a casa.  Il dubbio che le sirene non avessero cantato se lo pose già fin dai primi anni del secolo Giovanni Pascoli nei ventiquattro canti de L’ultimo Viaggio, il più lungo dei Poemi Conviviali, presentando un Ulisse ormai vecchio che decide di riprendere la via del mare e ritornare indietro nel tempo toccando tutte le tappe del suo viaggio da Troia ad Itaca.

Ma questo ritorno sarà molto arduo, reso tale anche dall’avanzata età di Ulisse, segnando la fine delle illusioni, visto che la molla del suo andare per mare, la sete di sapere si trasformano nella consapevolezza che nessuna conoscenza certa è possibile. La sensibilità inquieta della modernità proiezione di Pascoli sul mondo antico, trasformano l’Ulisse omerico nell’eroe della sconfitta, dello scacco dell’uomo dinnanzi al mistero della morte. 

Giuseppe Pucci

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